Attraversava Venezia in una di quelle notti in cui l’aria sapeva di sale e di mare, e la città sembrava sospesa tra il cielo e l’acqua, fluttuante nel riflesso incerto di una luna velata di nuvole.
Le gondole scivolavano lente tra i canali, e il lieve sciabordio dell'acqua contro le fondamenta di pietra pareva il battito sommesso di un cuore antico, un respiro che da secoli continuava a pulsare dietro le facciate scolpite di San Marco e lungo le mura silenziose di Palazzo Ducale. La luce fioca dei lampioni si rifrangeva sulle finestre gotiche, proiettando ombre allungate sui marmi consumati dal tempo, mentre l’acqua nera del Canal Grande raccoglieva ogni riflesso e lo restituiva tremolante, come un ricordo che riaffiora dal fondo della memoria.
Ricordava con precisione il primo mattino in cui aveva visto Venezia risvegliarsi sotto una luce dorata che filtrava attraverso le strette calli, insinuandosi tra le tende leggere delle finestre aperte sui canali. Il rumore dei remi nell’acqua era un sussurro sommesso, il suono di un risveglio lento e antico, come se la città stessa, prigioniera del tempo, si destasse con la calma di chi sa che il giorno non può che ripetere le stesse ombre e le stesse luci. Si trovava affacciata a una balaustra di ferro battuto e da lì osservava il lento fluire della vita veneziana: una donna che stendeva le lenzuola bianche tra due finestre, il riflesso del bucato che oscillava sull’acqua come vele spiegate, un gondoliere che modulava un canto antico, la sua voce che si perdeva tra gli archi delle case sull’acqua.
Passeggiava lungo le calli strette, perdendosi in un dedalo di vie dove il tempo sembrava essersi fermato. I muri erano consumati dalla salsedine, le porte di legno gonfie di umidità, eppure c’era una bellezza in quella decadenza, una grazia nel modo in cui il passato e il presente si incontravano nella pietra corrosa e nei muschi verdi che incorniciavano le fondamenta. Le tornava in mente quello che aveva letto in Ruskin: Venezia è la città che muore, e proprio in questa sua lenta agonia risiede la sua irripetibile bellezza.
E come Ruskin aveva visto nella Basilica di San Marco il simbolo di una grandezza ormai trascorsa, così lei la osservava con la stessa devozione e malinconia. Le cupole dorate si stagliavano contro un cielo velato di nubi, e la luce del pomeriggio le accendeva di riflessi caldi, quasi liquidi, come se l’oro stesso si fondesse nel cielo. Attraversava la piazza, sentendo sotto i piedi l’irregolarità delle pietre levigate dai secoli, e varcava l’ombra della basilica: le colonne di alabastro e porfido, i mosaici dorati che narravano storie di santi e miracoli, la penombra mistica che avvolgeva tutto in una quiete sacrale.
Ogni calle ed ogni palazzo si caricavano di una memoria letteraria che spuntava dalle parole di Henry James e Byron, come se i muri stessi fossero impregnati delle loro parole e dei loro versi. Attraversava il Ponte dei Sospiri e sentiva nell’eco del vento il lamento di prigionieri dimenticati; saliva le scale di Palazzo Ducale e udiva il suono delle voci dei Dogi, i passi risuonare nei corridoi come fantasmi di una potenza passata. Venezia era un libro aperto, le sue pietre lettere scolpite in un linguaggio di decadenza e splendore.
Eppure, c’era anche una dolcezza in quella fragilità. La sera, seduta ai tavolini di Piazza San Marco, guardava le coppie passeggiare sotto i portici, le orchestre suonare le note di una musica leggera, i camerieri in giacca bianca servire bicchieri di vino e caffè. L’aria sapeva di mare e di fiori, e nel cielo sfumato di rosa e oro si libravano voli di gabbiani. Era come se Venezia si concedesse, per un istante, il lusso di dimenticare la sua caducità, di risplendere con la bellezza di una città eterna, al di sopra del tempo e della storia.
Una notte di pioggia, mentre camminava lungo la Riva degli Schiavoni, il vento sollevava le onde della laguna e l’acqua saliva fino a lambire i gradini dei palazzi. Sentiva l’odore salmastro dell’acqua mista alla pietra bagnata, vedeva le luci delle lampade riflettersi nei canali con un tremolio inquieto, come il battito di una fiamma in procinto di spegnersi. La marea cresceva, e le calli si svuotavano, lasciando dietro di sé solo il suono dell’acqua che invadeva le strade. Venezia sembrava sprofondare, la sua bellezza sommersa in un lento naufragio.
Un pomeriggio di primavera, Venezia le apparve nella sua forma più pura. Attraversava il Ponte dell’Accademia, e il Canal Grande si apriva davanti a lei come una visione. Il cielo era di un azzurro lattiginoso, le facciate dei palazzi risplendevano in una luce morbida e dorata. Guardava le finestre gotiche di Ca' d'Oro riflettersi nell’acqua con un tremolio gentile, come un’ombra che sfugge alla presa della memoria.
Così, anche mentre lasciava Venezia, seduta su una gondola che scivolava lenta lungo il Canal Grande, sapeva che la città sarebbe rimasta con lei. Le immagini dei palazzi, delle cupole, delle finestre gotiche avrebbero continuato a vivere nella sua memoria, come una melodia che riaffiora improvvisa nel silenzio. Ogni angolo, ogni ponte, ogni ruga di marmo le rammentava un frammento di tempo che riaffiora alla superficie, come una conchiglia riportata dalle maree. Oramai le è chiaro che Venezia non è solo un luogo fisico, ma un’idea di bellezza e di perdita, un sogno che si riflette nell’acqua e che svanisce al risveglio, lasciando dietro di sé solo il battito sommesso dell’acqua contro la pietra, il respiro eterno della città che vive e muore nella stessa onda.